Prof. Alberto Giovanni Biuso
Liceo Classico Beccaria — Milano
Eibl-Eibesfeldt distingue anzitutto fra l’aggressività in generale
-che è fenomeno biologico, individuale e interno al gruppo- e la guerra,
la quale rappresenta invece un prodotto dell’evoluzione culturale. Il paradosso,
rispetto a tante semplificazioni e pregiudizi antietologici, è che “al filtro
di norme biologiche, che anche nell’uomo costituisce un freno alla distruttività,
viene sovrapposto un filtro di norme culturali, che impone di uccidere” (Etologia
della guerra, pag. 129). In quanto fenomeno storico, la guerra è quindi
superabile e la pace mondiale non è soltanto una bella utopia, a patto che della
guerra si comprendano funzione e struttura.
L’universalità dei conflitti fra gli esseri umani è data soprattutto da
tre fattori: lo spacing o mantenimento delle distanze tra gruppi culturali,
il reperimento delle risorse necessarie alla sopravvivenza, il rafforzamento
dell’identità tribale. Territorialismi, tecnologie belliche, diplomazie
sono delle strutture funzionali a questi scopi.
Partendo da questa intenzione, diventa possibile cogliere l’effettiva struttura di
molti fenomeni. Contrariamente alla guerra, l’aggressività è innata
ma lo è perché indispensabile alla sopravvivenza (aggressività difensiva),
all’evoluzione (aggressività adattativa), alla maturazione del singolo
(aggressività esplorativa). Quest’ultima consiste nella necessità,
da parte del bambino, di saggiare l’ambiente e valutare se stesso, scoprendo in tal
modo i limiti fino ai quali gli è concesso spingersi.
“Non è l’aggressività che si è sviluppata allo scopo di costituire
una gerarchia di rango, bensì è quest’ultima che si è sviluppata come
un meccanismo per venire a capo dell’aggressività interna al gruppo, aggressività
che da altri punti di vista è vantaggiosa” (Etologia della guerra, 54).
Sottolineando la culturalità della guerra e l’istintività della pace, Eibl-Eibesfeldt
sfata questo pregiudizio e mostra l’aggressività per quello che è: un impulso
innato ma funzionale e orientabile verso l’evoluzione come verso l’autodistruttività.
La scelta dipende da noi, dal coraggio della cultura.
“…c’è del marcio nella specie Homo Sapiens” (Otto peccati, 127).
Questa è la semplice, financo banale, ma importantissima constatazione da cui
parte Konrad Lorenz per descrivere i rischi e le storture di cui è vittima l’umanità
contemporanea. I più importanti fra essi sono: la sovrappopolazione che scatena
aggressività , la devastazione dello spazio vitale, la competizione esasperata
fra gli uomini, il venir meno dei sentimenti, il deterioramento dello stesso patrimonio
genetico, il rifiuto violento della tradizione, l’indottrinamento esasperato, le
armi nucleari (Otto peccati, 137).
Con aggressività si intende il conflitto intra-specifico, diretto
contro membri della stessa specie e non quello delle varie specie fra di loro (inter-specifico).
La lotta per la sopravvivenza, di cui parla Darwin, è appunto questa ed è
la sola che faccia progredire l’evoluzione. Senonché tale lotta è diventata
“nell’attuale situazione storico-culturale e tecnologica dell’umanità il più
grave di tutti i pericoli” (Aggressività, 66). La concorrenza sfrenata
fra gli uomini per l’utilizzo delle risorse rischia, infatti, di cacciare l’evoluzione
in un vicolo cieco non-funzionale e dunque potenzialmente autodistruttivo.
Lorenz cerca prima di tutto di spiegare i nessi causali che hanno condotto a un simile
risultato. Tutti i grandi predatori hanno dovuto sviluppare, nel corso della
filogenesi, una radicale inibizione a usare le loro potenti armi naturali
contro membri della stessa specie, pena l’inevitabile estinzione. Un lupo, ad esempio,
non ucciderà mai un altro lupo che gli offre la gola in segno di sottomissione,
e basterebbe un semplice morso. Qui l’inibizione è fortissima e agisce sistematicamente.
Nell’uomo invece essa è assente in quanto egli è privo di
armi naturali con le quali possa, in un sol colpo, uccidere una grossa preda: “nessuna
pressione selettiva si formò nella preistoria dell’umanità per generare
meccanismi inibitori che evitassero l’uccisione di conspecifici finché, tutto
d’un tratto, l’invenzione di armi artificiali portò lo squilibrio fra la capacità
omicidiale e le inibizioni sociali”( Aggressività, 314-315). Da qui il
proliferare patologico di una violenza senza freni, esercitata mediante armi che
colpiscono da lontano e in modo anonimo, rafforzata dall’evidente contrasto fra la
nobiltà dei valori etici -come la tolleranza e il cosmopolitismo- e il
permanere di istinti fondamentali e atavici come la difesa del proprio gruppo e del
proprio territorio contro qualunque invasore ed ogni possibile minaccia.
“La violenza è il destino della nostra specie. Ciò che cambia sono le forme,
i luoghi e i tempi, l’efficienza tecnica, la cornice istituzionale e lo scopo legittimante”
(Sofsky, 193).
Alberto Giovanni Biuso, Antropologia e Filosofia, Guida
Elias Canetti, Massa e Potere, Adelphi
Jared Diamond, Armi, acciaio e malattie, Einaudi
Irenäus Eibl-Eibesfeldt, Etologia della guerra, Bollati Boringhieri
Konrad Lorenz, Gli otto peccati capitali della nostra civiltà, Adelphi
Konrad Lorenz, L’aggressività, Mondadori
Wolfgang Sofsky, Saggio sulla violenza, Einaudi