Alcune considerazioni sulla reale necessità di interrompere questa folle corsa tecnologica
Da sempre ci hanno abituati a considerare l’industrializzazione come sinonimo
di progresso, al punto che una società che non ha sviluppato una economia di
tipo industriale è, già solo per questo, considerata una società arretrata.
Ma in realtà in cosa consiste l’industrializzazione?
Essa null’altro è che la sostituzione di una cultura materiale di tipo individuale
con una di tipo collettivo.
Prima che tale processo iniziasse, quando cioè l’organizzazione sociale era
prevalentemente di tipo rurale, la capacità di produrre da sé gran parte
delle risorse di cui si aveva bisogno era cosa comune, come lo è tutt’oggi presso
i superstiti popoli che ci hanno abituato (indottrinato) a definire primitivi.
La cultura materiale insomma era posseduta individualmente da ciascuno.
L’industrializzazione ha progressivamente sostituito tutta una serie di processi
produttivi “maneggiabili” su scala individuale o familiare, o comunque di piccole
comunità, con una serie di processi produttivi che presuppongono apparati di
grosse dimensioni, a loro volta dipendenti da reti commerciali ancora più vaste.
Prima che ciò avvenisse l’individuo era potenzialmente libero dalla dipendenza
dal proprio branco (uso qui questo termine in senso puramente etologico). Ad esempio,
nel medio evo, il feudatario aveva bisogno di imporre l’obbligo di macinazione del
grano nel proprio mulino, e i conseguenti oneri, perché l’agricoltore sapeva
benissimo come si macina il grano e avrebbe potuto provvedere da sé.
La schiavitù dell’individuo insomma esisteva pur sempre (non ha mai cessato
di esistere) ma era da imporre dall’esterno. L’individuo aveva tutte le conoscenze
necessarie a provvedere da sé ai propri bisogni. La cancellazione di questa
cultura materiale individuale ha reso l’individuo completamente — e intrinsecamente
— dipendente dal branco anche per le sue necessità di tipo più elementare.
Non c’è necessità, oggi alla quale l’individuo sappia provvedere con i
propri mezzi; egli sa fare ormai una sola cosa: vendere una consistente parte del
tempo della propria vita a un datore di lavoro dal quale riceve in cambio del denaro
che gli servirà a comprare il tempo della vita di qualcun altro il quale provvederà
a fornirgli questa o quella risorsa, l’unica a sua volta che egli è in grado
di produrre (l’idraulico, il falegname, il salumiere, ecc.).
I biologi dividono gli animali in due categorie a seconda della capacità o meno
dei loro piccoli di procurarsi il cibo appena nati: atti e inetti. Atti sono ad esempio
i pulcini, inette sono le rondinelle e tutti i mammiferi, fra cui l’uomo.
L’uomo (quanto meno l’uomo “industrializzato”) ha però in più una caratteristica:
è l’unico animale superiore che rimane inetto per tutta la vita. Per trovare
situazioni analoghe bisogna scendere fino al mondo degli insetti (le formiche o le
api), fino a casi estremi cioé in cui l’individuo non ha una sua specifica identità
ma è soltanto un elemento puramente esecutivo all’interno di una entità
più grande (il formicaio, lo sciame…).
Questo è dunque ciò che ci hanno abituati a chiamare uno stato di progresso
avanzato: un totale annientamento dell’individuo, totalmente e intrinsecamente sottoposto
alla schiavitù del branco.
Il potere in una società industriale non ha alcun bisogno di emanare leggi che
costringano l’individuo a ricorrere alle strutture che esso possiede: l’individuo
non sa fare altrimenti, perché ha ormai perso ogni capacità di badare a
se stesso, anzi ha completamente perso la stessa concezione del fatto che si possa
fare altrimenti.
Tempo fa ho udito una donna dire: «l’anno scorso siamo impazziti e abbiamo fatto
l’orto»; ciò che era insomma la cosa più ovvia e quotidiana fino ad
appena qualche decennio fa oggi viene descritta non solo come cosa eccezionale, ma
addirittura eccentrica, assurda.
Alla stessa donna ho dovuto spiegare cosa significasse che il suo terreno era esposto
a nord.
E questo introduce un altro aspetto della questione: la perdita del contatto col
mondo reale: se il branco provvede a tutto, il branco è tutto, null’altro esiste
al di fuori di esso. Credo che mai, neppure nel medio evo della Santa Inquisizione,
neppure nell’Egitto dei faraoni, il branco abbia assunto una fisionomia così
totalizzante, al punto da cancellare non solo le potenzialità di libertà
dell’individuo, ma la sua stessa percezione del mondo reale.
Si ricorderà la nota scena del film Padre padrone in cui al bambino viene
insegnato a riconoscere i suoni della campagna che lo circonda: bene, è falso
affermare che il padre di Gavino Ledda lo abbia strappato dalla scuola per consegnarlo
alla barbarie e all’ignoranza: lo ha trasferito da una scuola a un’altra scuola (prescindo
naturalmente dai metodi usati da quest’uomo, che sono tutto un altro discorso); aggiungo,
dalla scuola delle parole alla scuola del mondo reale.
Si potrà obiettare che è vero, tutto ciò è accaduto, ma questo
ci ha consentito un nettissimo miglioramento del nostro livello di vita. È una
delle più grandi menzogne che la “propaganda di regime” (non so come altro chiamarla)
ci ha propinato, e con molta efficacia a quanto pare.
In realtà la qualità dei prodotti e dei servizi messi a nostra disposizione
dagli apparati industriali, e di riflesso la qualità della nostra vita che,
come già detto, è da essi strettamente dipendente, non è nella maggior
parte dei casi migliore di quella degli equivalenti prodotti e servizi realizzabili
individualmente o comunque su piccola scala.
I procedimenti industriali consentono soltanto di concentrare la produzione e realizzarla
in grande quantità ma senza che ciò comporti alcun miglioramento qualitativo.
Del resto il marchio “Produzione artigianale” è ormai, e con ragione, comunemente
considerato sinonimo di qualità. Esempio banale: un panificio che vuole pubblicizzare
la qualità dei suoi prodotti espone abitualmente una insegna del tipo: “Pane
casareccio con forno a legna”, non si vanterà mai di certo di usare un forno
elettrico e di lavorare in serie.
Un esempio a mio avviso significativo è quello dei cesti, fino a qualche tempo
fa realizzati mediante verghe e canne intrecciate a mano e oggi generalmente sostituiti
da contenitori di plastica.
Per realizzare un cesto di verghe e canne occorrono a un esperto intrecciatore due
ore di tempo e una minima, davvero minima quantità di semplicissimi attrezzi
(il più “complesso” è costituito da un paio di cesoie), nonché, ovviamente,
la conoscenza delle tecniche di intreccio.
Il risultato è un oggetto di notevole pregio estetico, pratico e robusto; si
pensi a quest’ultimo proposito che mia madre ha un paniere vecchio di oltre 50 anni
e che esso è assolutamente indistinguibile, dal punto di vista dell’usura, da
un altro realizzato con l’identica tecnica qualche mese fa.
Per confronto gli analoghi contenitori prodotti dall’industria della plastica richiedono
grossi apparati industriali, a loro volta dipendenti dagli ancora più grossi
apparati dell’industria petrolifera, sono in genere oggetti privi di ogni pregio
estetico e vanno a pezzi nel giro di pochi anni.
Dunque quale è stato, in questo campo, il risultato dell’industrializzazione?
Un oggetto dozzinale e di breve durata ha preso il posto di un altro robusto, duraturo
e bello.
Inoltre, il diffondersi di tali oggetti ha comportato il progressivo oblio delle
tecniche di intreccio, tecniche alla portata di tutti a favore di altre tecniche,
non certo attuabili né, ovviamente su scala individuale, né su scala locale.
L’individuo che aveva bisogno di un contenitore insomma aveva fino a qualche tempo
fa la possibilità di costruirselo da sé, oggi non ha altra scelta che comprarlo
dall’industria, perché non sa più come fare.
Un’altra menzogna che ci viene spesso ripetuta è che la tecnologia industriale
consente all’uomo di avere un maggior quantità di tempo libero, eppure tutti
intorno a me non cessano di ripetere che vanno sempre di fretta, e che questa o quella
cosa non si può più fare perché non c’è più il tempo che
c’era una volta.
E sempre a proposito di tecnologia, ho udito tempo fa casualmente una trasmissione
televisiva sull’industria vitivinicola in cui almeno metà delle frasi pronunciate
dallo speaker iniziavano con le parole: «grazie alla tecnologia…» e la
cui tesi era che il vino “tecnologico” prodotto oggi è molto migliore di quello
prodotto una volta con tecniche casalinghe.
La persona che mi ha insegnato a fare il vino lo fa in casa da decenni; l’ho assaggiato
trovandolo squisito, di gran lunga superiore a quello commerciale ottenuto «grazie
alla tecnologia».
Ultimo esempio (ma potrei andare avanti ancora a lungo): di recente ho ritrovato
la casa di una mia prozia che viveva in piena campagna sui Nebrodi orientali, dove
andavo a volte a trascorrere qualche giorno d’estate da bambino: è un casale
immerso nel verde di splendidi boschi e uliveti, dal quale si gode la vista del mare
in lontananza su cui galleggiano, all’orizzonte, le isole Eolie.
Trovo superfluo dilungarmi nel descrivere la quiete del luogo, l’aria pulita eccetera:
sono cose che troverete su ogni pubblicità di azienda agrituristica, e cui evidentemente
non si attribuisce poco valore se si è disposti a versare nelle tasche dei titolari
di tali aziende fino a 100.000 lire al giorno.
Per confronto, un’altra mia parente trasferitasi da giovane a Roma, vive oggi in
un piccolo appatamento al sesto piano di un gigantesco condominio sulla Tiburtina,
dal cui balconcino si gode la vista… del muro del condominio di fronte.
È questo dunque il miglioramento della qualità della vita?
Con ciò non voglio dire che i contadini stessero bene: spesso la miseria faceva
parte della loro vita, ma ciò nasceva da condizioni estrinseche (l’oppressione
del feudatario nel medioevo, del latifondista in tempi più recenti…); oggi un’altra
miseria si è sostituita a quella, la miseria di una squallida vita da formicaio,
con in più il fatto che questa è una miseria ormai intrinseca, connaturata
a questo modello economico che presuntuosamente chiamano “modello di sviluppo”.
Si potrà obiettare che molte tecnologie che così tanta parte hanno oggi
nella vita di ciascuno di noi sono talmente sofisticate da non essere neppure pensabile
che esse siano producibili individualmente o a livello di piccola comunità.
È vero, tuttavia domando: ne abbiamo veramente bisogno? O meglio, più in
generale, quanti dei nostri “bisogni” quotidiani sono veramente tali e quanti sono
al contrario indotti dal tipo di vita che conduciamo allo scopo di procurarci i mezzi
economici necessari a soddisfare quei bisogni (esempio: l’automobile)? Qualche tempo
fa notavo che mia madre vive agiatamente con una pensione che, se fosse il mio stipendio,
rappresenterebbe per me uno stato prossimo alla povertà.
La ragione è che mia madre non ha alcun mutuo da pagare (io ho dovuto comprare
una casa a distanza accettabile dal posto di lavoro, pagandola un prezzo molto più
alto di quel che avrei potuto pagare una casa analoga posta in un luogo più
desueto), non deve mantenere i costi di un’automobile (io ne ho bisogno quotidianamente
per andare al lavoro), eccetera.
Fin troppo facile immaginare che quando le circostanze mi consentiranno di lasciare
il lavoro “dipendente” e dedicarmi interamente al progetto che sto qui descrivendo,
le mie esigenze di tipo economico si ridurranno di parecchio. In condizioni ideali,
sarebbe perfino lecito affermare che esse possano ridursi a zero.
Un altro punto è costituito dai bisogni di tipo psicologico, ovvero totalmente
fittizi perché creati artificiosamente dal branco, bisogni cioé che sono
tali solo perché il branco ci ha inculcato fin da piccoli l’idea che “senonhaiquellacosanonseiunodinoi”
(esempio: la televisione, il telefono cellulare): qualche tempo fa ho udito una persona
di Ucria, di quelle che sanno ancora fare il pane a mano col forno a legna, dunque
non certo fra le più immerse nel mondo della produzione industriale, l’ho udita
dicevo pronunciare una frase come: «ma come facevano una volta senza televisione?»
Si è giunti al punto che perfino un oggetto fra i più insulsi (e non aggiungo
altro) è considerato fra i bisogni primari.
Fra i quali invece non ci sono cose come l’aria pulita, la vita sana, il buon cibo,
il contatto con la bellezza del mondo naturale e molte altre cose di cui si fa quotidianamente
a meno convinti che sia un dettaglio trascurabile in confronto al superiore fine
del raggiungimento del “benessere”.
Non rendendosi conto che il vero benessere è costituito proprio da queste cose.
Qualche tempo fa udivo durante una trasmissione televisiva parlare di Tokio: un luogo
dove lo spazio pro capite è fra i più bassi del mondo, eppure, diceva lo
speaker, nonostante vivano letteralmente ammassati gli uni sugli altri, nonostante
l’aria irrespirabile (sono divenute famose le prese di ossigeno nella metropolitana)
e tutto il resto il tenore di vita a Tokio è fra i più alti del mondo.
Mi domando che cosa intendessero gli autori di quella trasmissione con il termine
“tenore di vita” per definire così positivamente quello di un tale formicaio.
24-01-2001 — Fonte: Un luogo vivo